ELENCO POST

Mostra di più

QUANDO IL BUIO ACCENDE LA CITTÀ È SPEGNE LA CONVIVENZA



Ciao cari lettori, 

sono le 22 di una sera d’agosto. L’afa è ancora addosso, appiccicosa, come un velo che non si stacca neanche col buio. Sono sul balcone, in cerca di un refolo di vento, di un po’ di respiro. Il cielo è nero, ma la notte non è tranquilla. Anzi: è viva. 

Troppo viva! 

Dalla strada, un rumore crescente: motori che sfrecciano, risate sguaiate, frenate improvvise, clacson strombazzati per gioco, o forse per sfida. Sono loro: gli adolescenti della sera. In sella a bici elettriche che sembrano razzi, a scooter sgangherati ma veloci, percorrono avanti e indietro lo stesso tratto di strada, come se la via fosse una pista da rally improvvisata. Salti, curve azzardate, acrobazie da cortile. Uno spettacolo di adrenalina, certo. Ma anche un’occupazione selvaggia dello spazio pubblico.

E così, ogni sera, da quando il sole cala, il quartiere cambia faccia. La normalità diurna, la spesa, i saluti tra vicini, il caffè al bar, sembra dissolversi. Al suo posto, un’altra regola: quella del rumore, della velocità, dell’assenza di limite. 

E non è solo fastidio per le orecchie. 

È  qualcosa di più profondo: un senso di "illegalità condivisa", che emerge con il buio come un rito notturno.

Perché accade? 

Perché con l’arrivo del crepuscolo, in tanti paesi d’Italia — non solo ai confini del Vesuvio, ma in periferie da Nord a Sud — sembra calare una sorta di "zona franca", dove le regole si fanno elastiche, dove il rispetto per gli altri si dissolve, dove il senso civico si spegne insieme ai lampioni (quando ci sono).

C’è un’idea, forse romantica, che la notte sia magica. È il tempo dei sogni, degli incontri, delle chiacchiere infinite. 

Ma qui, a volte, la notte non è poesia: è caos. È il momento in cui si sfoga l’energia repressa, la noia, la mancanza di spazi veri per stare insieme. 

Ragazzi che non hanno un centro giovanile, un campo sportivo aperto, un luogo dove esprimersi senza disturbare. E allora lo spazio pubblico diventa il loro palcoscenico: l’unico che hanno.

Ma non è solo questione di mancanza di infrastrutture. È anche un problema di "soglia del lecito". 

Quando nessuno dice “basta”, quando nessuno interviene, quando i genitori chiudono un occhio e le forze dell’ordine passano oltre, si crea un clima di "impunità silenziosa". Si normalizza l’anomalia. Si accetta che il rumore a mezzanotte sia inevitabile, che lo stridore di gomme sul selciato sia “roba da ragazzi”, che l’inciviltà sia semplice vivacità.

Dietro ogni clacson strombazzato, ogni risata troppo alta, ogni derapata pericolosa, c’è una domanda che nessuno vuole ascoltare: 

Chi si prende cura di questa comunità 

Chi insegna ai giovani che la libertà non è fare quello che si vuole, ma farlo senza calpestare la dignità degli altri? 

Chi ricorda che vivere in un luogo significa condividerlo, anche quando il sole non c’è?

Non si tratta di demonizzare i ragazzi. Anzi. Sono loro il futuro. Ma il futuro ha bisogno di radici, di limiti, di spazi veri, non solo di strade da percorrere a rotta di collo. Ha bisogno di adulti che non abbassino lo sguardo. Di politici che non parlino solo di sicurezza con i manganelli, ma di "educazione, prevenzione, partecipazione".  Di comunità che si riconoscono come tali, anche di notte.

Questa scena ricorrente, la mia, la vostra, quella di tanti paesi d'Italia, non è solo un fastidio estivo. È un sintomo. Un campanello d’allarme che dice: qualcosa non funziona nella convivenza. Il buio non rivela solo stelle. Rivela anche le crepe del nostro vivere insieme.

Forse, invece di aspettare il vento che non arriva, dovremmo cominciare a parlare. Da balcone a balcone. Da giovane a adulto. Da cittadino a cittadino. Perché la notte non deve essere il regno del chiasso e della sfida. Deve essere, anche lei, un tempo di rispetto. Di ascolto. Di cura.

Perché una città si misura anche da come vive le sue notti.  

E una comunità si riconosce da chi non tace quando qualcosa non va.

Notanostra, voce di chi guarda, ascolta, e prova a capire.


Un saluto dal vostro prof. Maurizio Ricci 

Commenti