Cara mamma, caro papà,
so che stai leggendo queste righe con il cuore un po’ stretto. Forse hai appena avuto una discussione con tuo figlio, o forse ti sei accorto che qualcosa non va, ma non sai bene cosa. Forse hai paura di chiedere, di scavare troppo, di sentirti dire cose che non sei pronto ad affrontare. Lo capisco. Davvero. Essere genitore oggi non è facile. Il mondo corre veloce, i ragazzi cambiano linguaggio, modi, bisogni — e noi, a volte, restiamo indietro, con le mani in mano e il cuore in gola.
Ma voglio dirti una cosa, da docente che ha visto tanti ragazzi e tanti genitori passare davanti ai suoi occhi: il tuo ascolto è la cosa più potente che puoi offrire a tuo figlio. Più dei consigli, più delle regole, più delle punizioni o delle ricompense.
Perché ascoltare (davvero) fa paura?
Perché ascoltare significa mettersi in gioco. Significa accettare che tuo figlio possa pensare in modo diverso da te, che possa soffrire in silenzio, che possa aver bisogno di te in un modo che non ti aspetti. E questa incertezza spaventa. Ci fa temere di non essere all’altezza, di non saper rispondere, di non poter “aggiustare” le cose.
Ma non devi aggiustare tutto. Devi solo essere lì. Presente. Senza ansia. Senza fretta di giudicare o correggere.
L’ascolto senza giudizio: un ponte, non un muro
Quando tuo figlio ti dice qualcosa — che sia un pensiero strano, un dubbio, una paura, un errore — la prima reazione istintiva potrebbe essere quella di correggere, rimproverare, minimizzare: “Ma cosa dici?”, “Non è possibile!”, “A casa mia non si fa così!”.
Queste frasi, anche se pronunciate con amore, costruiscono muri. E i ragazzi, davanti ai muri, smettono di parlare. Si chiudono. E il loro disagio, se c’è, cresce in silenzio.
Invece, prova a rispondere con:
“Raccontami di più.”
“Come ti sei sentito?”
“Grazie per avermelo detto.”
Non devi avere subito una soluzione. Devi solo fargli capire che la sua voce ha valore, che i suoi sentimenti sono legittimi, che con te può essere se stesso — anche quando è confuso, arrabbiato, fragile.
I segnali silenziosi del disagio
Spesso i ragazzi non dicono “sto male”. Lo mostrano. Attraverso il ritiro, l’irritabilità, il calo del rendimento, il sonno disturbato, la chiusura nelle stanze, il rifiuto del cibo o l’eccesso di schermo. Sono messaggi in codice. Richieste d’aiuto mascherate da comportamenti “difficili”.
Se noti questi segnali, non reprimere la tua preoccupazione — ma trasformala in curiosità gentile. Non inquisire, non controllare. Avvicinati con delicatezza:
“Ho notato che ultimamente sembri stanco. Va tutto bene?”
“Mi sembri un po’ giù. Vuoi parlare o preferisci un po’ di spazio?”
Lasciagli la porta aperta. Sempre.
L’ansia dei genitori: un nemico silenzioso
Lo so, l’ansia ti sussurra: “Se non lo controllo, succede qualcosa di brutto.” Ma l’ansia, se non la riconosci, diventa una gabbia. Per te e per tuo figlio. La paura di sbagliare ci porta a essere rigidi, a voler tenere tutto sotto controllo — e così soffochiamo lo spazio vitale che i ragazzi hanno bisogno di esplorare.
L’educazione non è controllo.
È accompagnamento.
È fiducia.
È presenza.
Piccoli gesti, grandi cambiamenti
Non serve essere perfetti. Serve essere umani. Presenti. Disponibili. A volte basta:
- Spegnere il telefono durante la cena e chiedere: “Com’è andata oggi, davvero?”
- Accogliere un silenzio senza riempirlo di domande.
- Ammettere: “Non so cosa dirti, ma sono qui.”
- Chiedere scusa se hai reagito male.
- Abbracciare senza motivo.
Questi gesti costruiscono sicurezza. E la sicurezza è il terreno su cui i ragazzi imparano a camminare da soli — sapendo che, se cadono, qualcuno li aiuterà a rialzarsi.
Tu non sei solo
Se ti senti sopraffatto, se non sai come gestire una situazione, chiedi aiuto. Parlane con un insegnante di fiducia, con uno psicologo, con un genitore amico. Non è un segno di debolezza. È un atto di coraggio. E di amore.
Perché amare un figlio non significa avere tutte le risposte. Significa avere il coraggio di ascoltare — anche quando fa paura.
Con affetto e stima,
Il vostro prof. Maurizio Ricci

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